Ieri mi accorgo che ho finito le pastiglie per una terapia che sto seguendo. Chiamo il medico di base, risponde la segretaria un po’ antipatica e riesco a strappare un appuntamento last minute per questa mattina. La giornata è splendida: quando esco di casa, il cielo è un infinito azzurrissimo, l’aria è dolce come solo può esserlo a primavera inoltrata e il verde dei numerosi alberi è nuovo e brillante. Salgo in macchina, musica on, pensieri in libertà e a un certo punto la mia macchinina è come un ago che infila la lunga tangenziale (ho il medico ancora a Milano). Man mano che(continua)
Ieri mi accorgo che ho finito le pastiglie per una terapia che sto seguendo. Chiamo il medico di base, risponde la segretaria un po’ antipatica e riesco a strappare un appuntamento last minute per questa mattina. La giornata è splendida: quando esco di casa, il cielo è un infinito azzurrissimo, l’aria è dolce come solo può esserlo a primavera inoltrata e il verde dei numerosi alberi è nuovo e brillante. Salgo in macchina, musica on, pensieri in libertà e a un certo punto la mia macchinina è come un ago che infila la lunga tangenziale (ho il medico ancora a Milano). Man mano che mi avvicino alla città, il cielo è meno azzurro e la sua infinità non mi sembra così scontata. Quando arrivo penso “Che fortuna”: ho trovato parcheggio vicinissimo allo studio medico. E se questa è fortuna, mi accontento ben di poco, penso sorridendo. Poi rifletto. A Milano la mancanza di spazio vitale è una caratteristica che la rende invivibile: ogni tanto me lo dimentico. Comunque sono di buon umore: un’oretta di attesa e poi torno a casa!
Già.
Ma prima c’è quell’ora di attesa.
Entro e mi accomodo in sala d’aspetto. Non c’è luce esterna ma solo quella delle lampade artificiali. E’ piuttosto angusta come saletta, c’è tanta gente ma trovo posto per sedermi. I miei pensieri si fanno pesanti e le mie orecchie sono disturbate dalla voce alta di una signorotta che racconta le sue sfighe mediche alla vicina di sedia ma con l’evidente intento di farlo sapere a tutti. Estraggo il cellulare per cercare un po’ di isolamento ma niente: la signorotta ci informa poco gentilmente che quando a suo padre diagnosticarono un tumore ai polmoni, fece un fioretto: “Oh Signore, se mi fai guarire mio padre, smetto di fumare”. Mi sale il fastidio: mescolare fede e superstizione è un attività in cui noi italiani siamo bravissimi. Non c’è niente, ma proprio niente di spirituale in quello che ha berciato la signorotta. E la sua voce ora ci informa sulla sua cartella clinica. Il mio buon umore è l’acqua di una pentola sotto un fuoco troppo alto: sta evaporando rapidamente. Ho ceduto, sono definitivamente innervosita. Pochi minuti dopo arriva un’altra signora, pretende subito attenzione dalla segretaria che però è impegnata a parlare con un’altra persona. La signora vuole una ricetta del farmaco pippopluto da 100 mg. Ma non dice subito così, ovvio che la sua storia è troppo densa e importante per rimanere nella sua testa. Deve spiegare tutto l’iter, che una volta ne prendeva 50 mg, che però poi…il medico….sa….e allora… Gesù. La segretaria la guarda e alla fine le chiede: “Quindi signora cosa devo farle?” e lei risponde un po’ seccata: “Quella da 100!”. La segretaria abbassa la testa, compila e mette da parte per avere la conferma e la firma del medico tra un paziente e l’altro. Se questo fosse un circo, l’educazione andrebbe insegnata a frustate. Poi si aggiunge un’altra donna (ma non erano gli uomini quelli tutto dramma&salute?) che, mentre sto parlando un attimo con la segretaria, si infila senza tanti complimenti per mostrare le sue mani arrossate. La segretaria, che è un ex infermiera, le dice molto gentilmente: “Ma signora qui ci vuole subito un dermatologo”. E mani-di fuoco che dice con tono sicuro? “Ah no, secondo me no, è la circolazione!”. Mi verrebbe da dirle in malo modo: “Ma che cazzo ne sai?”. Sono brutta e antipatica, lo so. E l’umanità è un virus a cui non si può sfuggire, basta uno sguardo per rimanere contagiati.
Dopo un’ora di attesa tocca a me. Il mio medico mi accoglie con un grande sorriso (mi conosce da trentadue anni), i suoi occhi brillano di passione per la professione. Ma come fa?
Finalmente vado a casa. Alberi, cielo di nuovo infinito. E sento l’urgenza di scrivere e condividere tutto, diventando come la signorotta che deve far sapere alla gente i cazzi propri. Con la differenza però che io detesto alzare la voce.
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